Ultimo aggiornamento 25 Maggio 2022 di Gloria
Spettacolari disastri e indimenticabili fallimenti si nascondono tra biancheria firmata Bic e profumi Harley Davidson. Ma quanti e quali sono gli scivoloni dei grandi marchi?
Secondo Matt Haig, autore del libro Brand failures: the truth about the 100 biggest branding mistakes of all time, i 100 errori dei big brand internazionali, possono essere raggruppati in 9 macro bucce di banana, incautamente calpestate da quotatissimi consulenti di marketing e comunicazione.
Sinteticamente possiamo parlare di:
- fallimenti classici,
- fallimenti di idea,
- errori di estensione,
- fallimenti delle pubbliche relazioni,
- fallimenti culturali,
- fallimenti delle persone,
- errori di rebranding,
- fallimenti tra web e nuove tecnologie,
- marchi “stanchi”.
Se dagli errori si impara più che dai successi, la lettura degli scivoloni degli altri può essere illuminante per non incappare nelle stesse modalità e per scovare la cantonata dove non pensavamo si potesse nascondere. L’esperienza di Haig ha consentito di individuare quindi nove categorie di fallimenti, la cui conoscenza potrebbe fornire una preziosa lezione per accudire il proprio brand. Curiosando tra gli esempi saltano all’occhio alcune cose che sono meno ovvie di quanto si possa credere:
- non sempre un ottimo prodotto avrà successo,
- anche essere un big brand non mette al sicuro del fallimento,
- il pubblico è sovrano,
- non basta la pubblicità per fare grande il marchio,
- occhio a ragionare in un’ottica integrata tra offline e online,
- l’errore si può nascondere in sfumature impensabili.
Brand Failures ci fa incontrate alla voce “classici” nientemeno che Coca-Cola, che nel tentativo di migliorare il gusto del proprio prodotto e nella continua sfida a Pepsi, nel 1985 si è avventurata nel lancio di New Coke, sottovalutando non poco la fedeltà al proprio marchio. Ma il fallimento può nascondersi anche in tante altre categorie: tra le più curiose quelle legate alla cosiddetta “mitologia del marchio” che va maneggiata con cura e viene raccontata al capitolo 4.
Negli ampliamenti insensati di gamma che possono danneggiare il marchio, va annoverato un incauto lancio di profumi e dopobarba tra i virili clienti di Harley Davidson. I fedelissimi hanno accettato gadget che vanno dai calzini agli accendini, ma all’arrivo delle essenze si è scatenata l’accusa all’azienda di “disneyficare” il marchio.
Occhio al rebranding
Per gli appassionati di loghi, spot e altre armi pubblicitarie non può mancare un tour nei grossolani errori raccolti alla voce Rebranding failures dove a contare non sono solo le scelte stilistiche, ma anche il tempismo. Nel suo costoso esercizio di rebrandind del 1996, British Airways ha davvero sbagliato tutto: i media hanno contrastato il restyling ricordando i licenziamenti per risparmio annunciati poco dopo. Come se non bastasse l’azienda ha pensato bene di abbandonare anche i colori della Union Jack per scelte cromatiche più internazionali. Insomma una serie di autogol piuttosto clamorosi. Ma a questa voce c’è davvero da imparare parecchio.
Fallimenti digitali
Il mondo digitale deve tenere bene a mente gli scivoloni raccontati al capitolo 9. “Internet ha caratteristiche uniche, che devono essere riconosciute – spiega Haig – e facilita la comunicazione bidirezionale, consente però ai consumatori rancorosi di diffondere il proprio messaggio anti-marchio in un modo più semplice che con i tradizionali media unidirezionali. Più significativamente, livella il campo di gioco. I concorrenti grandi e piccoli, ovunque si trovino, sono alla stessa portata”. Vero o meno che sia questo concetto di “stessa portata”, di certo è più saggio considerare il marchio online come una conferma dell’identità complessiva del marchio in generale, piuttosto che come qualcosa di vagamente collegato. E in questo senso le mosse per evitare cadute valgono sia online che offline.
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