Ultimo aggiornamento 10 Marzo 2020 di Alessandra

Avete mai fatto caso all’abitudine che hanno sviluppato i nostri occhi, nel momento in cui si trovano davanti ad uno schermo, di escludere dal campo visuale tutto ciò che è commerciale? Vi è mai capitato di chiudere “in automatico” un pop-up pubblicitario aprendo un qualsiasi sito internet e poi di non riuscire a ricordare nemmeno quale fosse l’oggetto della promozione? Non dobbiamo certo dirvelo noi che, dalla metà del 1800 in poi, l’azione pubblicitaria ha sempre più affilato i propri artigli passando dal suggerire risposte a bisogni reali, prima, al costruire bisogni indotti, poi, con obbiettivi di vendita sempre più “spinti”. Dalle prime inserzioni sulla carta stampata al native advertising online la promozione si è evoluta in maniera esponenziale, in risposta alle necessità imposte dal mercato. Ma andiamo per gradi.

Nel nostro paese, la diminuzione della domanda causata dalla crisi petrolifera dei primi anni ’70, e il conseguente surplus di offerta, hanno generato il primo consistente aumento della pressione competitiva, innescando automaticamente una rincorsa a canali, messaggi e strumenti sempre più innovativi e persuasivi. Nel 1985, nel corso del VII Forum della comunicazione di Milano, successivo alla ripresa economica, viene decretata la nascita della pubblicità spettacolo anche in Italia. Con l’inizio degli anni ’90, poi, il mercato pubblicitario registra una progressivo ritorno del consumatore ad una focalizzazione maggiore sulle necessità reali  e minore a quelle psicologiche. La comunicazione promozionale diviene meno emotiva, più razionale e di tipo informativo e si torna a parlare del “prodotto” e delle sue caratteristiche.

All’inizio del nuovo millennio, con ormai centocinquant’anni di storia alle spalle, la pubblicità, impossibilitata a progredire, si guarda indietro e inizia a citare la propria storia passata, ma, soprattutto, diventa autoreferenziale e tende ad avere come oggetto sempre meno il prodotto da pubblicizzare – che del resto possiede di rado caratteristiche in grado di differenziarlo realmente – e sempre più se stessa, i propri discorsi e i propri meccanismi di comunicazione. È a questo punto, grazie anche ad internet, che il fruitore del messaggio pubblicitario inizia a sviluppare delle forme di autodifesa nei confronti di tutti quei bisogni indotti da cui per anni era stato “bombardato” attraverso un numero sempre crescente di canali.

All’interno di questo blog e nell’ambito dei nostri corsi di formazione l’abbiamo detto tante volte: è il contenuto a fare la differenza, sia sul piano del posizionamento sui motori di ricerca – e di conseguenza della visibilità – sia per ciò che concerne la fidelizzazione e l’interesse da parte degli utenti – sempre più alla ricerca di contenuti di qualità e capaci di selezionarlo con cura. E alla luce di questo, cosa poteva fare la pubblicità se non trasformarsi in contenuto? Ecco allora che, verso la fine del primo decennio degli anni 2000, hanno iniziato ad affermarsi con sempre maggior forza i cosiddetti publiredazionali – informazione pubblicitaria impaginata e redatta come se fosse ad un normale articolo di giornale – e la pubblicità ha mutato progressivamente la sua forma, alla ricerca dell’equilibrio perfetto tra parte grafica / fotografica e parte testuale.

Il content marketing, come abbiamo già visto, è uno strumento molto utile per le aziende perché permette di creare e distribuire contenuti di rilievo, con l’obiettivo di attirare potenziali clienti o fidelizzare quelli esistenti. Per tale ragione (anche questo l’abbiamo già visto) è utile cercare di raccogliere questi contenuti all’interno di piattaforme proprie, come ad esempio il corporate blog.

Se l’azienda paga per pubblicare un contenuto di qualità, studiato e scritto per attirare e coinvolgere un’audience precisa, su un magazine autorevole, allora si può parlare di native advertising, ovvero, come da definizione di Wikipedia, una forma di advertising online che assume l’aspetto dei contenuti del sito sul quale è ospitata, cercando di generare interesse negli utenti.

Un esempio banale ma efficace di native advertising può essere un video dedicato ad un cuscino da allattamento all’interno di articolo che parla di gravidanza. La ratio a monte del native advertising, infatti, è relativa al flusso di pensiero del consumatore. Una pubblicità di tipo contestuale non interrompe l’attenzione dell’audience di riferimento, anzi, dovrebbe creare interesse e coinvolgimento superiori alla pubblicità tradizionale.

Le statistiche elaborate dall’azienda Sharethrough, che produce un software per la pubblicazione multicanale di native advertising, e l’agenzia newyorkese IPG Media Lab, riassunte nell’infografica qui sotto, testimoniano in maniera molto evidente come le inserzioni native catturino l’attenzione dell’utente in maniera molto maggiore rispetto alle inserzioni “tradizionali”. Un numero su tutti: l’utente dedica un tempo di consultazione praticamente identico tra contenuto ed inserzione nativa, cosa che non si può neanche immaginare che avvenga con i tradizionali banner.

Statistiche native - Puntoventi

Che si tratti di contenuti per il corporate blog, di un pubbliredazionale o di native advertising, non c’è nemmeno bisogno di dirlo, è la qualità del contenuto (che sia testuale, fotografico, grafico o video) che distingue un’inserzione di successo da una pubblicità qualunque.

Il Native Advertising, dunque, non influisce sulla user experience e, anzi, offre al lettore informazioni utili in un formato identico a quello di altri contenuti presenti nel sito. In questo modo gli utenti sono molto più coinvolti, rispetto ad una pubblicità più “classica”, inserita, per esempio, sotto forma di banner. Ciò significa che a trarre vantaggio dal native advertising non sono solo gli inserzionisti, che ottengono più click, ma anche i lettori, che trovano informazioni utili, piuttosto che contenuti meramente commerciali.