Pubblicità e comunicazione sono davvero lo specchio di quello che siamo? Stereotipi e pregiudizi guidano le nostre decisioni, sia nel comunicare che nel prendere decisioni per la vita aziendale? Spesso, nel tentativo di semplificare la complessità dei fenomeni, prendiamo scorciatoie che possono anche nuocere al nostro brand.
Le ragioni di queste scelte sono molteplici: per cercare di indagarle possiamo scomodare nientemeno che la neuroeconomia, settore della ricerca neuroscientifica che studia il funzionamento della mente umana in relazione ai processi decisionali nella soluzione di compiti economici. Per farlo questa disciplina incrocia le conoscenze della sfera economica con quelle derivanti da altri ambiti psicologici e scientifici. In tal modo si cerca di capire come si comporta il cervello durante i processi di decision making.
La fretta è una cattiva consigliera?
In quest’ottica il comportamento economico mescola tanti ingredienti: consapevolezza e razionalità, ma anche una buona dose di automatismo ed emotività. Il cervello tenta di lavorare in economia e sceglie sempre, se può, la strada più breve: nel farlo è aiutato dai cosiddetti bias cognitivi che risparmiando energia ci fanno decidere in fretta. Inutile dire che la fretta in azienda, come pure nella vita, è spesso una cattiva consigliera. Le ricerche del premio Nobel Daniel Kahneman hanno evidenziato che questi procedimenti intuitivi portano spesso a commettere errori sistematici usando costrutti non fondati su un giudizio critico.
Quale scorciatoia ha imboccato il mio cervello?
La comunicazione attinge a piene mai dai tanti bias: analizzarli tutti sarebbe difficile, ma possiamo guardarne alcuni per evitare, nel comunicare, le più grossolane bucce di banana. Oppure per sfruttare la risposta positiva del consumatore che abbocca a questi bias con estrema facilità. La recente pandemia e soprattutto l’infodemia che ne è derivata sono state la festa del bias di conferma, con cui il nostro cervello tende a cercare conferma dei suoi pregiudizi e delle sue opinioni o convinzioni. L’azione di questo bias provoca una totale fiducia nelle proprie opinioni che irrigidisce, impendendo di cambiare posizione anche se l’evidenza indica che siamo in errore. Agire in termini di comunicazione o nelle scelte aziendali mossi da questo scorciatoia, crea danni molto pesanti. La resistenza al cambiamento impedisce di comprendere il nostro target di comunicazione, praticamente ci fa finire a “parlare da soli”. Pensate a qualche campagna pubblicitaria che non vi dice nulla e capirete subito quali bias siano coinvolti.
La cassa di risonanza dei social
Nei social questa continua conferma delle proprie opinioni trova una cassa di risonanza, cavalcata molto bene dagli algoritmi che mi fanno vivere in una bolla autoreferenziale in cui continuo a specchiarmi sempre in qualcosa di simile a me. E qui agisce pure il bias dell’ancoraggio, che non richiede molte spiegazioni: sto attaccato come una cozza allo scoglio delle mie granitiche convinzioni. Ne stiamo avendo prova in particolare nell’ultimo anno, con la questione favorevoli e contrari alla vaccinazione anti-Covid19.
Un altro scivolone frequente è quello causato del bias dell’in group (di gruppo), errore cognitivo che ci porta a favorire e scegliere persone che appartengono al nostro stesso gruppo, sia esso sociale, culturale, etc. Continuare a frequentare o pescare sempre dallo stesso paniere impedisce di cogliere le novità, di mescolare le carte, di confrontarsi e spesso di accogliere il nuovo, utilissimo motore per le aziende, per i brand e per la comunicazione. Curiosando tra i bias più sfruttati c’è senza dubbio quello della riprova sociale: recensioni, opinioni degli altri ci fanno sentire tutti più sicuri. Ed ecco che nei social spopola l’uso di tutto quello che il cliente pensa, garante non solo dei suoi acquisti, ma a quanto pare, pure dei nostri.
E quindi, usarli o cercare di schivarli?
La risposta sta nel mezzo. Intanto non è detto che riusciamo a riconoscerli quando li mettiamo in azione. Partono praticamente in automatico mentre prendiamo le nostre decisione. E se decidiamo di usarli per catturare l’attenzione altrui, con i nostri prodotti o brand, dobbiamo fare attenzione che mentre cavalchiamo l’onda, convinti di conoscerla, la marea non sia già cambiata. Un esempio su tutti, il tone of voice cambiato in corsa nelle campagne pubblicitarie e di comunicazione, nella recente pandemia. Se in quest’occasione avessimo tenuto un atteggiamento di conferma o ancoraggio, la nostra comunicazione sarebbe stata inascoltata o peggio criticata.
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