Ultimo aggiornamento 26 Ottobre 2020 di Puntoventi

Se vi recaste oggi da un qualsiasi consulente di web marketing, vi spiegherebbe che alla base di qualsiasi sua azione vi è la targhettizzazione. Una campagna fatta come si deve, infatti, non può prescindere dall’analisi, comprensione e conoscenza approfondita del nostro pubblico di interesse, sulla base delle quali poi si andranno a scegliere il messaggio, il linguaggio e i canali più adeguati.

Già il film Minority Report, girato nel 2002 ma ambientato nel 2054, aveva provato a mostrarci il futuro di una targhettizzazione estrema, con messaggi pubblicitari adattati al singolo individuo. Ciò che fanno oggi siti internet e motori di ricerca con i vari cookie non è molto diverso da questo tipo di personalizzazione del messaggio.

Aiutanti fondamentali di chi si occupa dell’analisi dell’audience – quelli che sono già i nostri clienti/follower – e dell’individuazione del target – coloro a cui ci interessa arrivare in particolare con una determinata azione di marketing – sono, oltre ad eventuali analisi di mercato, tutte quelle statistiche ormai messe a disposizione, oltre che dai social network, dal re dei motori di ricerca: sua maestà Google!

La regola aurea del posizionamento ci dice “comportati come Google vorrebbe che tu facessi, scrivi per l’utente, fornisci contenuti originali e utili, fidati della profilazione fatta da Google Ads e sarai certo di raggiungere il tuo target di riferimento“.

Come detto prima, per selezionare i risultati di una ricerca da restituire all’interno della SERP e gli annunci Ads a essa correlati, i motori di ricerca raccolgono tramite cookie e browser tutta una serie di informazioni sulle caratteristiche principali dell’utente (utili a tracciarne un profilo in chiave marketing): posizione geografica, lingua utilizzata, abitudini di navigazione, ecc.

Ma cosa ne pensano gli internauti di tutto questo “spionaggio”? Quelli che non ne sanno niente probabilmente vivono benissimo, quelli più abituati a informarsi o che con il web ci lavorano invece iniziano a storcere il naso e ad andare alla ricerca di strumenti “alternativi” per navigare tranquillamente senza essere scansionati dalla testa ai piedi.

Ecco allora che spuntano nuovi browser come lo statunitense DuckDuckGo e l’europeo Qwant che hanno alla base della propria filosofia proprio la tutela della privacy dei propri utilizzatori. Il primo, fondato nel 2008 dall’imprenditore Gabriel Weinberg, restituisce i propri risultati attraverso una combinazione di varie fonti, incluse DuckDuckBot (il proprio crawler), Yahoo! Search BOSS, Bing e Yandex. Il secondo, che prende il nome da un’omonima società francese di proprietà di Jean-Manuel Rozan, esperto di finanza, ed Éric Leandri, specialista di cybersecurity, è stato finanziato con 25 milioni di euro dalla Banca Europea degli investimenti, è stato lanciato agli inizi del 2013 e di recente è stato integrato in Firefox.

Qwant presenta i risultati in maniera diversa dai competitor, sono solo raccolti tutti insieme in un’unica SERP ma anche suddivisi in base alle categorie che sono organizzate in colonna sulla sinistra dello schermo (Web, Novità e Social, Immagini, Video, Acquisti, Musica (in versione beta) e Bacheche).

L’utilizzo di questi strumenti di navigazione è ancora troppo marginale, soprattutto in Italia, per riuscire ad analizzare le ripercussioni sul marketing online ma scommetteremmo volentieri che Google e il suo fedele browser, Google Chrome, non avranno vita facile se questi concorrenti dovessero prendere piede.